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Colesterolo e alimenti

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Il colesterolo è un lipide prodotto dal nostro stesso organismo perché è indispensabile per la costituzione delle membrane cellulari dove forma le cosiddette zattere lipidiche, strutture in grado di modulare il passaggio di segnali biochimici da e verso la cellula, inoltre è il precursore degli ormoni sessuali (estrogeni, progesterone, testosterone e derivati), del cortisolo e degli altri ormoni della corteccia surrenale, della vitamina D, degli acidi e dei sali biliari (necessari alla digestione dei grassi alimentari e all’assorbimento delle vitamine liposolubili).
L’organismo sano produce da sé il colesterolo necessario al proprio funzionamento, se ne viene introdotta una quota con la dieta (prodotti animali) l’organismo si adeguerà producendone di meno, sempre che non ci sia una patologia che gli impedisce di modulare la produzione endogena.

Il contenuto nel nostro sangue

La quantità di colesterolo a livello ematico che valutiamo con le analisi del sangue non è solo quella derivata dagli alimenti, la gran parte è rappresentata dal colesterolo endogeno (ne produciamo tra 1 e 2 grammi al giorno, principalmente a livello epatico).
In situazione fisiologiche tanto più alto è l’apporto di colesterolo con la dieta minore sarà la quota di colesterolo che sintetizziamo. Le vecchie raccomandazioni nutrizionali sul colesterolo risalgono agli anni ’60 e indicano la quota massima di 300 mg al giorno di colesterolo alimentare con il limite di 3 uova a settimana. Il motivo di questi limiti è tutt’altro che scientifico, infatti è stato ritagliato sulla popolazione americana che si stimava introducesse 600 mg di colesterolo alimentare, per cui, senza la dovuta sperimentazione, il dimezzamento della quota sembrava poter risolvere vari problemi di salute.

Le agenzie internazionali

Solo in quest’ultimo anno le principali agenzie internazionali che si occupano di nutrizione e salute umana hanno rivisto queste indicazioni arrivando a rimuovere un limite al consumo così restrittivo (vedi Dietary Guidelines for Americans). Nell’individuo sano l’enzima preposto alla sintesi di colesterolo (HMG-CoA reduttasi) viene infatti inibito dal colesterolo alimentare mentre è stimolato da un’elevata assunzione di carboidrati.

La colesterolemia

Se la colesterolemia è molto superiore al valore considerato borderline con molta probabilità non è colpa solamente di ciò che mangiate. È più probabile invece che vi sia un cattivo funzionamento del sistema di regolazione legato ad un difetto genetico. In questo caso genitori o fratelli e sorelle potrebbero condividere lo stesso problema.

Il colesterolo LDL

Bisognerebbe poi sottolineare che il colesterolo non è tutto uguale. In particolare il colesterolo LDL (quello cattivo) può assumere l’aspetto di molecole grandi e leggere (large buoyant LDL) o di molecole piccole e dense (small dense LDL). Queste ultime sono maggiormente aterogene perché tendono con più facilità ad ossidarsi. Curioso sapere che le uova contengono per lo più molecole del primo tipo.
Sarebbe opportuno non accanirsi su un unico fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, il colesterolo per l’appunto. L’aterosclerosi è una malattia su base multifattoriale: obesità, sedentarietà, fumo, alimentazione sbilanciata (troppo ricca di carboidrati, di grassi saturi, di grassi trans e di cibi industriali) e stress, sono tutti fattori modificabili. Somministrare una pillola per ridurre il colesterolo (a volte fino a valori estremamente bassi) non ha alcuna utilità se nel frattempo tutti gli altri fattori di rischio continuano ad agire.


Quali uova scegliere?

 Ovviamente quelle bio o, meglio ancora, da produzione propria sia per il benessere del consumatore sia per quello delle galline che mangiano determinati cibi e hanno a disposizione uno spazio più ampio. Ciò comporta una positiva ricaduta anche sul contenuto nutrizionale delle uova che, come tutti i prodotti animali, sono più a rischio di bioaccumulo di sostanze tossiche.

Qual è il modo migliore per cuocerle?

 Quello che lascia morbido il tuorlo mentre fa coagulare l’albume (vedi uova all’occhio di bue, alla coque, in camicia). In questo modo si preserva il valore nutrizionale del tuorlo che contiene oltre al colesterolo anche proteine di elevato valore biologico e vitamine del gruppo B, mentre si denatura l’avidina, sostanza che si trova nell’albume crudo e inibisce l’assorbimento della biotina (detta anche vitamina H o vitamina B7).

Riferimento bibliografico
Donald J. McNamara. The Fifty Year Rehabilitation of the Egg. Nutrients 2015

Cibi ad alto indice glicemico

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Il glucosio è il motore del metabolismo cellulare, tuttavia, quando è introdotto in eccesso con la dieta, crea danni. Questa problematica sta assumendo grande rilievo negli ultimi anni a causa del cambiamento che è avvenuto nell’alimentazione umana. La raffinazione di farine e cereali insieme alla commercializzazione su larga scala di zucchero, miele e dolcificanti vari, tal quali o aggiunti agli alimenti confezionati, ha portato al consumo di cibi ad alto indice glicemico. I cibi ad alto indice glicemico innalzano molto e velocemente la glicemia, si tratta di zucchero sia raffinato che grezzo (anche quello di canna), miele, dolcificanti, farine bianche, riso bianco, pasta, pane e pizza da farine raffinate.
Per questo è importante accompagnare ogni pasto con un’abbondante porzione di verdure crude e/o cotte riducendo invece le verdure amidacee come le patate e la frutta contenente molto glucosio (uva) e fruttosio (banane, cachi…) ed eccessivamente matura.

Perché è importante l’indice glicemico?

Diversi studi scientifici, insieme alla comprensione del meccanismo di sviluppo delle cellule tumorali, mostrano come i cibi ad alto indice glicemico siano il miglior nutrimento per il cancro.
Le cellule tumorali metabolizzano il glucosio a ritmi elevati e mostrano maggiore sensibilità delle cellule sane alla riduzione del glucosio. Sempre queste cellule hanno un metabolismo diverso rispetto a quelle sane, nei tumori maligni spesso si registra un aumento della glicolisi anaerobica, un processo che utilizza glucosio come combustibile e, in carenza o assenza di ossigeno, produce acido lattico e scarsa quantità di energia. Le cellule sane normalmente, dopo la glicolisi, avviano il prodotto ottenuto verso la respirazione cellulare con produzione di energia, acqua e anidride carbonica. Le cellule normali hanno assoluto bisogno di ossigeno mentre quelle tumorali possono vivere senza grazie alla trasformazione di grandi quantità di glucosio in acido lattico. L’accumulo di acido lattico genera un abbassamento del pH nei tessuti, per questo si parla sempre di più di alcalinizzazione dei tessuti e dieta alcalina.

Una dieta mirata

La dieta a basso contenuto di glucosio, oltre ad alcalinizzare i tessuti, stimola un aumento dei livelli di telomerasi, l’enzima che mantiene giovani. I telomeri sono le strutture terminali dei cromosomi che si accorciano man mano che si invecchia. Inoltre una dieta ipoglicemica ostacola l’espressione di un gene che riduce proprio l’attività della telomerasi.
Quindi è bene seguire una dieta con una buona percentuale di carboidrati sì, ma di tipo complesso e con molte fibre.

Che grano mangiamo?

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Fino agli anni ’60 il grano duro di nome “Cappelli era l’unica varietà coltivata nel Mezzogiorno d’Italia, esso rappresentava l’alimento base della dieta della popolazione pugliese ad esempio. Questo grano, sebbene fosse apprezzato per la qualità, era, purtroppo  per noi, poco produttivo.
Così, nel 1974, il Professore Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, (attuale presidente dell’Accademia delle Scienze) con un gruppo di ricercatori del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) indusse una mutazione genetica nel grano duro denominato “Cappelli”, esponendolo ai raggi gamma di un reattore nucleare per ottenere una modifica e, in seguito, lo incrociò con una varietà americana. Dopo la mutazione, il povero grano era diventato “nano”, mostrando differenze positive rispetto al cappelli originale, in caratteri come la produttività e la precocità nella crescita. Questo nuovo tipo di grano mutato geneticamente, non OGM, ma irradiato, fu battezzato “Creso” e, con esso oggi si prepara ogni tipo di pane, pasta, dolci, pizze, alcuni salumi, capsule per farmaci, ecc. (con questa farina si prepara circa il 90% della pasta venduta in Italia).
Il grano Creso presenta un’aumentata quantità di glutine che ne ha migliorato la qualità commerciale e pastificatoria ma ne ha sicuramente apportato un incremento nell’alimentazione umana. Inoltre ha prodotto un’alterazione del pH digestivo con conseguente perdita di flora batterica autoctona, questo nel tempo ha avuto notevoli ricadute sulla salute della popolazione soprattutto per quanto concerne le malattie autoimmuni dalla celiachia all’artrite reumatoide all’ipotiroidismo di hashimoto etc.
Il fatto che il glutine, costituito principalmente da due tipi di proteine, le gliadine e le glutenine, possa causare problemi di salute, posto in termini biochimici, deriva dalla composizione di un particolare frammento proteico in cui gli aminoacidi prolina sono posizionati in modo da impedire l’attività di idrolisi da parte dell’enzima specifico. Detto in un linguaggio molto tecnico, l’apparato digestivo dei mammiferi non ha una capacità infinita di idrolizzare i legami ammidici quando sono adiacenti a residui di prolina creando frammenti indigeriti con attività infiammatoria.
Per questo motivo si cerca di recuperare varietà di grano che contengono quantitativi di glutine inferiori oltre ad altri componenti di grosso interesse nutrizionale. Tali “grani antichi”, quasi estinti a causa di ripetuti e differenti interventi sulle varietà, stanno ritornando in auge e rappresentano la vera perla della nostra alimentazione mediterranea.

Gli omega 3

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Gli omega-3 sono acidi grassi polinsaturi e si definiscono essenziali, in quanto si possono introdurre esclusivamente con la dieta, non possono essere prodotti dal nostro organismo che può solo trasformarli in omega-3 a lunga catena a partire da un precursore. Anche gli acidi grassi omega-6 sono essenziali, ma a differenza degli omega-3, sono presenti fin troppo abbondantemente nell’alimentazione moderna. Nella dieta infatti, è importante non solo introdurre un buon quantitativo di omega-3, ma anche tenere sotto controllo il rapporto omega-3/omega-6.
Benefici degli omega-3
Antinfiammatori per eccellenza, necessari per il sistema nevoso, utili nel combattere il colesterolo e quindi le malattie cardiovascolari, sembra che abbiano un effetto benefico anche sul microbioma intestinale aumentandone la biodiversità e selezionando famiglie di batteri buoni nel nostro intestino. Quest’ultima notizia, frutto di una ricerca dell’Università di Nottingham e del King’s College London, può offrire ulteriori vantaggi per la salute: meno rischio di diabete, obesità e malattie infiammatorie come la colite o il morbo di Chron.



Omega-3 da fonti animali

Alcuni pesci grassi (salmone, trota, aringa, sgombro) sono buone fonti di acidi grassi omega-3 a lunga catena (EPA, acido eicosapentaenoico e DHA, acido docosaesaenoico), quelli di cui il nostro organismo ha più bisogno.

Omega-3 da fonti vegetali

I cibi vegetali ricchi di omega-3, per lo più acido linolenico, da cui il nostro organismo costruisce EPA e DHA, appartengono al gruppo della frutta secca e semi oleaginosi. Sono ricchi di omega-3, i semi di lino, l’olio ottenuto dalla premitura a freddo dei semi di lino, le noci, i semi di chia. Le alghe utilizzate in cucina non sono una buona fonte di omega-3, ne contengono quantità molto ridotte mentre il concentrato ottenuto da microalghe (olio algale) e contenuto in alcuni integratori può essere fonte privilegiata di DHA.

Perché preferire le fonti di omega-3 vegetali

Il pesce contiene anche altri grassi: tra il 15% e il 30% grassi saturi (cioè i grassi “cattivi”) e una buona quota di colesterolo. Nel grasso del pesce si ritrovano concentrati tutti gli inquinanti che si riversano nelle acque.
Solo specifici tipi di pesce contengono omega-3 e la cottura prolungata o ad alta temperatura potrebbe ridurne il quantitativo.
Da un punto di vista economico, non è pensabile consumare pesce ogni giorno per la popolazione generale,
Infine, non è sostenibile, ed è impossibile all’atto pratico, un aumento del consumo di pesce per tutta la popolazione. Già un consumo agli attuali livelli ha causato devastazione a causa dalla pesca selvaggia, e tutti gli esperti del settore concordano nell’affermare che la situazione non è più sostenibile.
Anche l’assunzione di omega-3 da capsule di olio di pesce non è una scelta salubre e valgono inoltre le stesse preoccupazioni a livello ecologista.

Gli omega-3 in gravidanza e allattamento

In gravidanza e allattamento, può essere raccomandabile, sentito il parere del ginecologo, associare all’alimentazione con adeguato contenuto di omega-3 anche l’assunzione di 100-200 mg di DHA preformato, da integratori preferibilmente di fonte algale. Questo per assicurare la disponibilità di DHA anche in caso di ridotto funzionamento dei meccanismi di conversione. Le quantità di DHA che, eventualmente, l’organismo non utilizza possono essere retroconvertite e utilizzate a fini energetici.

Gli omega-3 nel divezzamento

Anche nei bambini in fase di divezzamento si consiglia l’assunzione giornaliera di 2 porzioni di cibi ricchi in omega-3. In particolare per bambini vegetariani e vegani l’olio di semi di lino da frigo è sicuramente il più pratico da utilizzare e il più facile da assumere per il bambino sotto l’anno di vita. Basterà quindi aggiungere alle pappe tiepide 2 cucchiaini di olio di semi di lino al giorno.
In accordo al principio di precauzione, occorre valutare con il pediatra l’eventuale integrazione di DHA preformato, in quantità di circa 100 mg al dì (realizzabile anche attraverso un’assunzione di 200 mg a giorni alterni). Per i preparati in capsule/perle basta far fuoriuscire l’olio algale immediatamente prima della somministrazione.

I benefici del cioccolato fondente

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Ricco di sostanze benefiche come i flavonoidi, il cioccolato fondente è prezioso per la nostra mente.

Il cioccolato fondente aiuta la memoria e favorisce l’apprendimento. Ricco di sostanze dall’effetto neuroprotettivo come i flavonoidi , questo alimento è prezioso per la nostra mente ed è in grado di migliorare le performance cognitive. È quanto sostiene uno studio condotto dai ricercatori dell’Università dell’Aquila e pubblicato su Frontiers in Nutrition.
I flavonoidi migliorano la cosiddetta “memoria di lavoro” che aiuta ragionamenti, calcoli matematici ma anche l’elaborazione delle informazioni visive. I ricercatori hanno preso in esame precedenti studi sugli effetti dei flavonoidi e ne hanno così riscontrato l’attività positiva rispetto alle funzioni cognitive.
I migliori risultati sono stati evidenziati sugli anziani e sulle donne: queste ultime sembrano ottenere grandi benefici dal cioccolato anche dopo una notte insonne. È stato riscontrato infatti che riescono a svolgere i propri compiti con maggiore lucidità e attenzione nonostante il cervello non abbia avuto il tempo necessario a riposarsi.
Per quanto riguarda gli anziani la revisione della letteratura precedente suggerisce che l’assunzione quotidiana di flavonoidi di cacao, per almeno 5 giorni e fino a 3 mesi, ha portato i maggiori benefici per la funzione cognitiva, migliorando attenzione, velocità di elaborazione, fluidità verbale e memoria di lavoro.
Allora cosa state aspettando? Via libera al cioccolato mi raccomando però, non più di 20g al giorno!

Le cotture poco salutari

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Il metodo di cottura degli alimenti può determinare la formazione di alcune sostanze dannose per la salute a partire da proteine e carboidrati naturalmente presenti nel cibo.
Quando si cuoce a temperature molto elevate, come succede con la cottura alla griglia, alcune proteine e carboidrati e la creatina che è abbondante nella carne, si trasformano in amine eterocicliche (HCA). In particolare le HCA le ritroviamo nelle parti bruciacchiate presenti sulla superficie della carne cotta.
Oltre a queste sostanze, vanno considerati gli idrocarburi aromatici policiclici (PAH) che si sviluppano quando il grasso di cottura raggiunge la brace ardente e si infiamma. I fumi che contengono i PAH penetrano nel cibo. I PAH si ritrovano anche nel fumo di sigaretta e in qualsiasi alimento contenente grassi sottoposto ad affumicatura. Quindi il discorso vale per tutti i cibi proteici e grassi come carne pesce o latticini affumicati. Tutti gli alimenti in grado di sviluppare HCA e PAH sono risultati associati oltre che col cancro, anche col diabete di tipo 2, con l’obesità, e con l’infiammazione e la resistenza insulinica.
In particolare riguardo alla carne, relativamente all’insorgenza del diabete e al consumo di carne, uno studio condotto dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston e pubblicato sulla rivista Diabetes Care che ha preso in esame un gruppo di oltre 59.000 donne, dimostra che consumare spesso carne alla griglia o alla piastra può aumentare il rischio di diabete di tipo 2 rispetto a carne preparata diversamente.
In particolare nelle donne che consumavano 2 o più volte a settimana carne cotta sulla piastra o sul barbecue, il rischio di sviluppare il diabete tipo 2 era il 20-30% più alto rispetto a quelle che la consumavano solo 1 volta al mese.
In conclusione se si consumano occasionalmente alimenti proteici e grassi come una bistecca cotta alla griglia o alla brace non viene aumentato il rischio di diabete di tipo 2, ma se questo metodo di cottura è usato di frequente il rischio aumenta, quindi è consigliabile non solo ridurre il consumo di carne rossa ma usare anche metodi di cottura a basse temperature per tutti i cibi.

Vitamina D

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La maggior parte della vitamina D, dall’80 al 90% del fabbisogno individuale, viene prodotta dall’organismo grazie all’esposizione alla luce solare, questo permette la formazione di un precursore che poi l’organismo trasforma in vitamina attiva.

Alla nostra latitudine sono sufficienti 15 minuti di esposizione tre volte a settimana di volto e braccia. Nonostante questo, le carenze di vitamina D sono molto comuni: il 60-80% della popolazione presenta carenze. Le cause sono molteplici: le creme solari, gli indumenti coprenti, una limitata esposizione al sole, un’abbronzatura intensa e l’invecchiamento sono responsabili di un’inferiore produzione di vitamina D.


Pochissimi cibi contengono vit D (alcuni pesci, funghi,) a meno che non siano fortificati cioè arricchiti, in ogni caso i livelli ematici restano insufficienti se una persona non si espone affatto al sole. In tutti i casi in cui non ci si può esporre al sole oppure i meccanismi endogeni di sintesi di vitamina D risultano rallentati è consigliabile ricorrere a un’integrazione per raggiungere il fabbisogno raccomandato.
Questo rappresenta un aspetto molto importante della prevenzione in quanto la carenza di vit D è associata a diabete, obesità e sindrome metabolica oltre che alla disregolazione del metabolismo del calcio.


La Vitamina D va integrata fin dalla nascita. Ormai è stato stabilito che il latte materno non rappresenta per il bambino una fonte certa di Vitamina D indipendentemente dalla dieta della madre. Quindi, a partire dalla nascita a tutti i bambini e non solo a quelli di madre vegana, che siano allattati al seno o che ricevano latte adattato in quantità inferiore a un litro al giorno, è raccomandata l’integrazione con Vitamina D.

Integrare la vitamina B12

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Gli unici produttori di vitamina B12 sono i batteri. Anche la vitamina B12 contenuta nelle carni degli animali d’allevamento proviene da integrazione dei mangimi.


Una volta la Vitamina B12 era estesamente presente nell’ambiente perché, come già detto, proviene dalla produzione dei batteri, quindi tutto quello che era contaminato, era una fonte potenziale di Vitamina B12, anche le verdure. In realtà noi abbiamo modificato l’ambiente in tutti i sensi e ormai utilizziamo alimenti igienizzati il più possibile, questo, sebbene produca degli indiscutibili vantaggi, sicuramente riduce la disponibilità ambientale di vitamina B12.

Un tempo le famiglie avevano l’animale da latte che veniva sacrificato alla fine del suo ciclo produttivo dopo aver mangiato erba al pascolo per anni e quindi aver fatto accumulo di vit B12 che si ritrovava nelle carni e nei prodotti derivati.


Oggi i mangimi sanitizzati non contengono vit B12 a meno che non vengano dati integratori, ma la vita piuttosto breve dell’animale (in media 2 anni) non consente neppure un accumulo adeguato della vitamina nei tessuti e comunque non paragonabile alla quantità contenuta nelle carni degli animali al pascolo di un tempo. Inoltre l’uso frequente di antibiotici negli animali d’allevamento distrugge anche i batteri che normalmente producono vit B12 nel loro tubo digerente.


Purtroppo chi consuma con la dieta carne e altri cibi animali come il latte, le uova o i formaggi, non è assolutamente immune da questo tipo di problema. Anche se queste persone non avessero problemi di assorbimento, va ricordato che il contenuto di Vitamina B12 nei cibi è estremamente variabile perché dipende sostanzialmente da quanto integratore viene aggiunto al mangime.

Non solo: per assumere adeguati livelli di Vitamina B12 con la dieta, bisognerebbe assumerne tre volte al giorno, in tre pasti distinti, almeno 2 microgrammi a pasto (dati EFSA) e questo è abbastanza difficile.
Senza contare che può esistere in alcuni soggetti un malassorbimento della vitamina contenuta nel cibo, ciò capita spesso oltre i 50 anni, quindi la vitamina, pur essendo presente nel cibo non riesce ad essere liberata ed assorbita, ciò crea uno stato carenziale anche se non necessariamente si arriva allo stadio clinico.

Tutti dovrebbero preoccuparsi di fare un dosaggio della vitamina B12 nel sangue ed eventualmente considerare un’integrazione nel caso in cui i livelli fossero inferiori a quelli ottimali che corrispondono a 450 ng/litro.
Gli stadi di carenza avvengono almeno in 4 steps che durano anni, durante i quali è possibile fare diagnosi e bloccare il fenomeno reintegrando senza giungere alle manifestazioni cliniche della carenza caratteristiche dell’ultimo stadio che sono a carico del sangue e del sistema nervoso e potrebbero essere irreversibili. Prima di arrivare a questo stadio ci sono anni in cui si può intervenire affinché non si sviluppi la carenza clinica.

Le dosi da assumere (in modo regolare e continuativo) in una situazione normale, non di carenza, sono:
3 assunzioni da 2 mcg al giorno oppure 1 assunzione da 50 mcg al giorno oppure 2 assunzioni settimanali da 1000 mcg. In caso di carenza occorrerà invece assumere, solo per qualche mese, una dose giornaliera da 1000 mcg, dietro indicazione di un professionista della nutrizione competente. Sia l’EFSA [1] che l’Istituto di Medicina USA (IOM) [2] affermano che non ci sono rischi conseguenti all’assunzione di dosi elevate di vitamina B12.
Non c’è nessun pericolo per i vegetariani (vegani o latto-ovo) e onnivori che seguono queste indicazioni, mentre invece è pericoloso arrivare a uno stato di carenza clinica per chi non le segue. L’unica attenzione va posta verso chi ha un’anamnesi di malattia oncologica pregressa, che dovrà preferire l’assunzione 3 volte al giorno di 2 mcg di vitamina alle alternative più dilazionate nel tempo o alle dosi massive.

1- EFSA Dietary Reference Values for cobalamin (vitamin B12). EFSA Journal 2015;13(7):4150 10.
2- Office of Dietary Supplements—Dietary Supplement Fact Sheet: Vitamin B12.
Available online: https://ods.od.nih.gov/factsheets/VitaminB12-HealthProfessional/